

Sto guardando un video, una bambina vaga sola tra le dune del deserto tra Libia e Ciad. Quel tratto del deserto del Sahara è una zona nota per essere frontiera di respingimenti e abbandoni dopo le espulsioni dalla Libia.
“Babbo, cos’è?” mi chiede mia figlia Margherita.
“Oh, niente”, e torna a giocare con lo slime, in italiano “muco”, una pasta gelatinosa e appiccicosa a cui in questo momento sta dando forme improbabili.
Con lo slime, quella figurina umana in mezzo al deserto, non credo abbia mai giocato.
“Niente”, questa parola mi risuona in testa. Perché ho risposto così a mia figlia Margherita? Eppure il video che stavo guardando è uno dei più potenti che abbia mai visto, non è “niente”. Ci sto ancora ragionando: no, non è stato per proteggerla. Margherita sa già che centinaia di migliaia di persone sono costrette a spostarsi ogni anno, in tutto il mondo, letteralmente a fuggire da dove sono nate, per le condizioni invivibili che lì si sono generate.
Io racconto tutto a Margherita e Caterina, sono di quell’idea che con un linguaggio adeguato non ci siano questioni inaffrontabili. Eppure, oggi, di quella bambina sola in mezzo al deserto, ho taciuto. Non ho ancora trovato le parole per me, figuratevi per loro. Quest’articolo è una scusa per incavarmi l’animo, e vedere se le parole sono da quelle parti, sgattaiolate fino lì fuggendo dalla ragione, perché non c’è nessuna ragione per cui una persona debba perdersi nel deserto, non ci sono parole. I genitori della piccola possono essere stati rapiti, oppure uccisi. E fra le due ipotesi non so quale per loro sarebbe migliore.
Perché quel video mi disturba così tanto? Partiamo da qui: non disturba soltanto me. Ho letto i commenti, migliaia, sotto i post che hanno avuto il coraggio della condivisione di quelle immagini.
Cos’ha di diverso quel video rispetto ad altre immagini strazianti che ci arrivano ogni giorno, anche da zone di guerra, e non ci fanno lo stesso effetto? Ad esempio ogni giorno abbiamo la possibilità di scorrere centinaia di immagini di morte dalla Palestina, da Gaza. Dall’inizio degli attacchi, l’esercito israeliano ha ucciso un bambino ogni 45 minuti. Li vediamo ogni giorno feriti, amputati, ma quella bambina è viva. La sensazione è che si possa ancora fare qualcosa, ed è anche quella di avere pochissimo tempo a disposizione. Lei è lì, cammina, le mosche non le sorvolano la testa, per ora; lei è lì e somiglia incredibilmente a una qualsiasi delle mie cugine, o a un qualsiasi figlio bianco dell’Occidente pasciuto.
Quella bambina, o bambino, l’abbiamo conosciuta tutti. Cammina, incerta come si cammina insicuri quando siamo scalzi sulla sabbia, e se le metti il mare davanti potrebbe sembrare una spiaggia. Se le metti in mano un secchiello, sta andando a fare un castello di sabbia dove qualche volta arrivano le onde.
Quel video ci disturba perché non è in continuità con la narrazione dell’invasione, lei non ha muscoli prestanti, ma neanche è disperata, oppure già morta. È inspiegabile quella bambina, perché non somiglia a niente di quello che ci hanno raccontato fino a oggi, non ricalca nessuno degli slogan usati per raccogliere il consenso, quello più bieco, dettato dalla paura.
Nessuno che guardi l’immagine di quella bambina può onestamente averne timore, neanche il più spietato fautore dei respingimenti o degli accordi italiani con i trafficanti libici. Quella figurina in mezzo al deserto non è alta, non è forte, non ha grandi muscoli. Non ha le unghie colorate, non sembra stata dal parrucchiere recentemente, non ha neanche un cellulare in mano. Scrivendo, sto volutamente ricalcando le fake news più in voga usate dai cattivisti negli ultimi anni. Quella bambina non somiglia neanche a uno spacciatore ai giardini, o a un mendicante di fronte all’Eurospin. Quel frugoletto è disturbante perché siamo noi stessi qualche anno fa, siamo noi in qualsiasi foto che conserviamo nell’album dei ricordi e a cui vogliamo più bene. È la nostra sorella più piccola di cui conserviamo la foto salvata sul cellulare, che ci appare quando ci chiama. L’immagine di lei che ancora non andava alla scuola primaria, oggi che invece studia a Milano o lavora all’Impruneta, oppure a Maglie e ci vediamo poco, però sarebbe bello vedersi di più.
Non sappiamo niente di quella bambina, eppure abbiamo la sensazione di sapere tutto. Perché quella bambina – in fondo – rappresenta quello che l’Europa non ha fatto, e dà i contorni di quello che il mondo ha prodotto.
