Mangiare il granchio blu è la soluzione?

Il granchio blu è l’ultima di una lunga lista di specie che invadono i nostri habitat e creano danni ambientali, sociali ed economici. Un problema causato dall’uomo e destinato ad aumentare con la crisi climatica. C’è chi propone di contrastarle un morso alla volta. Funzionerà? Ecco cosa dice la scienza.
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Rubrica a cura di Mattia Iannantuoni
7 Settembre 2023

In queste settimane in cui il granchio blu è protagonista di tante delle nostre conversazioni, avrai sicuramente incontrato dichiarazioni di politici, pescatori e giornalisti che invitano a consumarlo per contribuire a contrastarne la proliferazione. E forse hai già dato un’occhiata a due o tre videoricette sui social. Ma davvero la soluzione alle specie aliene invasive è mangiarsele?

Il problema delle specie aliene invasive

Certo, per alcuni di noi mangiare è sempre una buona idea, ma cerchiamo di capire bene insieme questa proposta. Il granchio blu è solo l’ultima di una lunga lista di pesci, animali terrestri e piante che vengono da lontano e hanno “invaso” i nostri habitat. “Invaso” è un termine un po’ ambiguo, a dirla tutta: spesso è l’attività umana a muovere esemplari da un habitat a un altro. Praticamente le invitiamo noi, a volte intenzionalmente e a volte senza rendercene conto. Ma una volta che si accomodano, grazie ad alcune caratteristiche quali la loro grande capacità di adattamento e l’assenza di predatori naturali, sono capaci di stabilirsi e diffondersi. Hai voglia poi a sbadigliare e guardare l’orologio facendo notare che si è fatta una certa…

Una specie aliena invasiva comporta una seria minaccia all’ecosistema locale, e di conseguenza al suo funzionamento – e quindi alla sicurezza delle comunità umane che da esso dipendono. Si stima che dal 17esimo secolo a oggi le specie aliene invasive abbiano contribuito a quasi il 40% di tutte le estinzioni animali di cui conosciamo le cause e sono oggi considerate tra le principali minacce alla biodiversità. Questo perché gli esemplari alieni predano le specie native, cioè quelle che sono già presenti in un habitat, o si mettono in competizione con loro per l’utilizzo delle stesse risorse, oppure ancora trasmettono loro patogeni. Per non parlare del fatto che a scuola li bullizzano e al supermercato rubano loro il carrello.

Cambiando gli equilibri degli ecosistemi in cui si insediano, queste specie possono mettere a rischio la nostra sicurezza alimentare. Spesso infatti compromettono l’attività agricola o ittica, come nel caso del granchio blu, andando ad amplificare i problemi socio-economici di un territorio.

Le specie aliene invasive sono veramente un bel grattacapo soprattutto perché naturalmente non sembrano esserci ostacoli alla loro presenza. Ma ecco l’intuizione: se c’è un’esplosione di esemplari di una specie che nessun altro animale preda, e se questi esemplari sono commestibili… be’, perché non lo facciamo noi esseri umani? Perché non ci mangiamo l’invasore, insomma?

Mangiare le specie aliene invasive è la soluzione?

È un’idea che entusiasma tanti e prende il nome di invasivorismo: appunto mangiare le specie aliene invasive per contrastarne la proliferazione.  Il primo a proporla alla comunità scientifica è stato l’ecologista conservazionista Joe Roman dell’Università del Vermont, che in un testo del 2004 chiede: “Scusate raga, ma se noi umani già abbiamo cacciato fino all’estinzione specie autoctone in lungo e in largo, perché non proviamo a farlo anche con quelle aliene?”

La sua provocazione viene raccolta. Negli anni successivi al suo testo, negli Stati Uniti alcuni chef provano a inserire specie aliene nei menù, università e centri di ricerca organizzano veri e propri contest culinari e diverse istituzioni lanciano campagne per chiedere ai cittadini e ai consumatori di “far andare le mascelle”.

I sostenitori dell’approccio invasivoro confidano in diversi benefici. Oltre a eliminare fisicamente gli esemplari della popolazione invasiva, l’appetito potrebbe portare una nuova consapevolezza sul problema: se si impara a conoscere la specie invasiva come alimento, si può diffondere l’interesse a procurarsela, a capirla meglio e quindi anche a riconoscerla in natura. Questo può portare a segnalazioni più frequenti e a un migliore monitoraggio da parte delle autorità, per esempio.

Temporaneamente, l’interesse gastronomico per una specie aliena può offrire delle fonti di guadagno alternative per le comunità locali. Per fare un esempio concreto, torniamo al granchio blu nelle nostre regioni. Se loro divorano i molluschi che i pescatori e le aziende ittiche normalmente commercializzano, perché non portare i granchi stessi sui banchi del mercato o ai ristoranti locali? A parte il fatto che i granchi hanno le chele e pizzicano, mica come le vongole.

Se lasciamo da parte per un attimo ogni doveroso ragionamento sull’etica animale, non è così assurdo pensare che questa idea dell’invasivorismo possa funzionare. Non sarebbe la prima volta che la nostra fame senza limiti porta una specie sull’orlo dell’estinzione: è successo con il merluzzo dell’Atlantico, il bisonte dalle praterie americane, e in parte anche con i dodo. Nessuno ci pensa mai abbastanza, ai dodo… L’invasivorismo in soldoni è rivolgere quella stessa fame senza limiti a una specie problematica. È un po’ come quei video su TikTok in cui barbieri turchi tagliano i capelli con la fiamma ossidrica. Cosa potrebbe mai andare storto?

L'invasivorismo funziona davvero?

Per capirlo, facciamo un salto negli Stati Uniti a incontrare un’altra specie invasiva: il Pterois volitans, il pesce leone orientale, anche noto come pesce scorpione. Un pesce nativo del Pacifico che probabilmente a causa dello sversamento dagli acquari della costa occidentale tra gli anni 80 e 90, negli ultimi decenni si è diffuso ampiamente dal Golfo del Messico al Mar dei Caraibi. Per contrastarlo, nel 2011 la National Oceanic and Atmospheric Administration ha lanciato la campagna “Eat Lionfish!” per convincere ristoratori e consumatori a risolvere il problema un morso alla volta. Ora, la campagna è stata capace di creare da zero una cultura gastronomica attorno al pesce leone. Uno studio del 2018 ha sondato l’appoggio dei consumatori e scoperto che non solo sembrano apprezzarlo, ma molti sarebbero disposti addirittura a pagare un extra per consumare questa specie sapendo che così facendo aiuterebbero ad affrontare il problema.

Tutto questo ci direbbe che dunque l’invasivorismo funziona…se non fosse che la diffusione non si è arrestata! Anzi nel 2016 sono iniziati gli avvistamenti di questa specie di pesce scorpione anche in alcune aree del Mediterraneo.

La verità è che oggi non abbiamo abbastanza evidenze scientifiche che ci facciano capire se mangiare le specie aliene sia davvero un modo per contrastarne la proliferazione. Sappiamo che per funzionare, l’invasivorismo deve assicurare la rimozione di esemplari in modo da portare a un declino della popolazione. Questo non è scontato, perché non basta grigliarne qualcuno e sperare che gli altri scappino via. Soprattutto, rischia di non funzionare quando la specie invasiva è già molto diffusa. Ma ci sono altri dubbi riguardo questo approccio, dubbi che anzi abbia implicazioni che vanno addirittura nella direzione opposta.

Un’ipotesi è che creare un mercato per le specie aliene invasive porti, sul lungo termine, a renderle una risorsa fondamentale per le comunità locali. Immagina di essere un pescatore della Laguna veneta che inizia a commerciare granchio blu. Metti che funziona, gli affari vanno bene e tu passi a questo tipo di pesca. Non avrai forse tutta la convenienza a mantenerlo nella tua laguna, a quel punto? Un esempio è quanto successo con la trota introdotta in Nuova Zelanda o il cervo rosso in Patagonia, entrambe specie aliene entrate però stabilmente tra le risorse che creano indotto economico al settore della caccia e della pesca locali. Il rischio è di creare un conflitto tra esigenze ecologiche e interessi socio-economici, rendendo la gestione delle specie invasive ancora più complicato.

Un altro dubbio sull’efficacia di un approccio invasivoro riguarda poi l’accettabilità. Non è detto che la popolazione sia sempre ben disposta a mangiare una specie aliena. Pensa che negli anni 90 in Luisiana si è tentato di lanciare una campagna per promuovere il consumo della nutria, che come da noi era diventato un grande problema. Come ti sentiresti se trovassi crocchette di nutria nel menù di un ristorante?

La crisi climatica significa sempre più specie aliene invasive

Dunque, dunque, ricapitoliamo: mangiarsi le specie aliene invasive è una proposta originale per provare a porre rimedio ad un problema ambientale, sociale ed economico. Tuttavia oggi non abbiamo le prove scientifiche che sia una soluzione efficace. Del resto, stiamo parlando di un problema complesso e sarebbe ingenuo pensare che basta mettersi a tavola per risolverlo.

Tuttavia quella delle specie aliene invasive è seriamente una questione da imparare a masticare. Perché in un mondo che combatte lentamente la crisi climatica, è doveroso aspettarsi che le specie aliene continuino a insediarsi e diffondersi in habitat a cui non appartengono. Infatti il riscaldamento globale anche in questo caso amplifica il problema.

Come ti ho raccontato in apertura, è l’attività umana a introdurre specie aliene negli habitat. Ed è sempre l’attività umana che causa il riscaldamento globale. Il lato positivo è che proprio per questo motivo è nostro potere affrontare queste sfide e provare a risolverle insieme. Forchetta e coltello ci aiuteranno a farlo? Forse. Ma quasi certamente non basteranno.

Questo articolo fa parte della rubrica
Creatore di contenuti come conseguenza, appassionato di racconti come causa. Approdo al mondo delle storie su clima e sostenibilità dopo un altro…