Le capanne del pensiero: progetto filosofico per Fondazione Prada
pubblicato il 4 giugno 2018 alle ore 17:45
A Venezia la mostra "Machines à penser", complessa e arricchente Venezia (askanews) - La capanna del filosofo Theodor Adorno non è mai esistita, come tale. Esiste però sotto forma di opera d'arte di Ian Hamilton Finlay, che con legno e acciaio ha dato forma, reale ci sentiamo di dire, a una sorta di sintesi filosofica. Da lì, da quell'opera, è partita la ricerca di Dieter Roelstraete che ha portato a concepire un progetto molto ambizioso, anche per un soggetto ambizioso di suo come la Fondazione Prada, in particolare nella declinazione delle mostre veneziane a Ca' Corner della Regina. "Machines à penser" è l'esposizione aperta in concomitanza con la Biennale di architettura e che si concentra proprio sulla relazione tra tre grandi pensatori del Novecento tedesco - Adorno, appunto, Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein - che hanno sfruttato l'esilio - volontario o indotto - per scrivere i loro testi più importanti, all'interno di luoghi divenuti celebri come la baita al bordo della foresta di Heidegger o la capanna norvegese di Wittgenstein, affacciata su un abisso che era più di una semplice metafora. Mario Mainetti, curatore associato in Fondazione Prada: "Il tema della distanza che si decide di prendere dalla propria vita di tutti i giorni per pensare, raccogliere le idee, scrivere - ha spiegato ad askanews - è un tema attuale e siamo andati a vedere come questo tema è stato importante per il lavoro di questi tre filosofi". Gli spazi del palazzo veneziano diventano altro, funzionano come meccanismo ("machines" potremmo dire senza troppa fantasia) che attiva le dimensioni plurime del racconto, che sfrutta certamente la fascinazione per i tre filosofi, ricostruendone la mitologia geografica, ma che poi spinge lo sguardo più in là, in un terreno misto, imprevisto, pericoloso e affascinante nella misura in cui smonta e poi ricompone le nostre certezze. "Io penso - ha aggiunto il curatore - che questa sia una mostra che sta all'incrocio tra architettura, filosofia e arte e che è una mostra attuale. Soprattutto se l'attenzione per questi spazi viene girata in attenzione per il tempo che queste persone hanno passato all'interno degli spazi". In fondo l'arte ha, alla fine, un tema inevitabile e ricorrente, così come la filosofia, e questo è il tempo. "Essere e tempo", non a caso, è il titolo dell'opera gigantesca di Heidegger, e, a distanza di tempo, "Machines à penser" prova, ancora nelle parole di Roelstraete, a utilizzare i luoghi di scrittura per "ripensare l'intero complesso abitativo della filosofia". Naturalmente attraverso le opere della mostra. "Le opere d'arte - ha concluso Mario Mainetti - sono raccolte come in un saggio: c'è la storia principale degli artisti che sono andati a cercare questi luoghi e che da lì hanno preso ispirazione per produrre delle opere d'arte che qui sono presentate, e ci sono delle note, come a piè di pagina, che sono altri artisti, altri temi, o degli altri filosofi che hanno avuto i loro luoghi di ritiro e queste sono un po' il contorno della mostra". Come forse si può intuire, la mostra è profonda e complessa. Ma la capacità di attivare connessioni, di rimescolare le carte e di prendere vita all'interno dello spazio espositivo, oltre al coraggio di proporsi nella propria potenziale oscurità, sono elementi che valgono il prezzo della sfida. Ed è probabile che, alla fine, ci si senta stupiti, confusi e anche un po' cambiati. Perfino, segretamente, un po' più ricchi.
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