908 CONDIVISIONI
Opinioni

Jago: “Gli errori sono opportunità. E terminare gli studi è da sfigati”

Intervista a tutto campo con lo scultore italiano. Dagli esordi al processo creativo, dall’amore per Napoli sino all’intelligenza artificiale: “Senza un modello di business, l’arte è frustrata”.
908 CONDIVISIONI
Immagine

Il luogo è la Chiesa di Sant'Aspreno ai Crociferi, ancora consacrata, nel mezzo del rione Sanità di Napoli. E lui, Jacopo Cardillo, in arte Jago, di nero vestito, è il suo custode e sacerdote laico. Trentasette anni, da Frosinone, Jago è considerato da anni uno dei più importanti scultori italiani, e non solo. Uno status costruito opera dopo opera, riprendendo gli stilemi della scultura classica e calandoli nella contemporaneità e nelle sue manifestazioni sociali: dalle migrazioni all’ossessione per la bellezza e la giovinezza, dalla fluidità di genere alla violenza sulle donne. Un po' Canova, un po' Banksy. Non solo: Jago, a dispetto del nome da villain shakespeariano è anche quel che si può oggi definire un’imprenditore sociale, che mette al lavoro ragazze e ragazzi della Sanità, guide appassionate che accolgono i visitatori del museo.

“L'idea c'è. Poi l'inferno e la notte porteranno alla luce questo parto mostruoso”. È la chiosa del monologo di Jago, tratto dell'Otello di Shakespeare. Perché hai scelto questo pseudonimo?

Viviamo in un mondo in cui ci vengono affidate delle cose come dei doni, tra cui anche il nome. Sono cose che ci sono state date. Ma quanto ci riguardano veramente? Quanto sono noi? Io dove sto lì dentro? Esistono culture, altre invece in cui ognuno può essere libero, prendersi la libertà di scegliere il proprio nome, a volte anche perché un suono che gli corrisponde, che vibra realmente con quello che è. Il nome che mi sono scelto non ha niente a che vedere con lo Jago di Shakespeare e con l’Otello. È il mio nome, quello che io considero tale, che mi sono scelto.

Però parliamone di Jago, il cattivo di Shakespeare per eccellenza, un manipolatore che si nutre di rancore. L’Otello credo sia la prima opera europea in cui il bene è nero e il male è bianco. Ecco: il bianco e il nero, l'ombra e la luce sono centrali anche nella tua arte. Shakespeare usa il bianco per raccontare il male, la manipolazione, l’alterazione della realtà. Tu manipoli e alteri la pietra bianca per raccontare che cosa?

La scultura è fatta di luce e di ombre. È un chiaroscuro, fondamentalmente, in cui la luce e l’ombra giocano un ruolo fondamentale.Io questa cosa l'ho capita davvero a Napoli.

Come mai?

Perché Napoli è una scultura meravigliosa, ha luci immense e ombre immense. Tu non puoi ridurre la luce in favore dell'ombra perché non vedresti nulla e al contrario, se fosse tutto buio non vedresti niente ugualmente, perché sarebbe un'immagine totalmente bianca e solarizzata. Luci e ombre ti danno equilibrio.

Quand'è che ha deciso di fare lo scultore?

Non so se è una cosa che si decide, è una cosa che si accoglie probabilmente come una necessità. Sicuramente ho compreso quando ero molto piccolo, che avevo una predisposizione manuale. I bambini hanno tutti un tipo di intelligenza diversa. Il gioco con i mattoncini è stato forse l'unico che ho fatto. Poi tu invece di giocare ti rendi conto che godi di più nel creare il gioco e quindi alla fine non giochi più, perché giocare è inutile in quanto hai scoperto il piacere della creazione, quindi gli piace più creare quella cosa piuttosto che usarla.

Ho letto che da qualche parte che c'erano delle pietre vicino a casa tua, e che è lì che ha iniziato a scolpire…

Oddio, vicino. Dalla Ciociaria ci vuole qualche ora. Sì ho iniziato trovando perché non avevo la capacità di poter comprare il marmo, il marmo ha un costo importante. Quindi dovevo andare in Toscana cercando un passaggio, e in questo fiume c'erano gli scarti del processo di lavorazione del marmo e quindi con una barella fatta a mano scendevo me li portavo via. È stato interessante perché poi lì, in potenza, in quel piccolo sasso, c'era la visione, c'era il desiderio, c'era l'intenzione genuina e l'unico forse merito è quello di aver insistito nonostante tutto e tutti. Nel credere che quella roba lì si potesse trasformare in questo momento.

Contro tutto e tutti: noi spesso leggiamo sui giornali di diciannovenni già laureati e dell’importanza di finire presto gli studi. Ecco, nella tua biografia mi ha colpito che non hai avuto un percorso di studi lineare. 

Secondo me è paradossale il fatto che si dica di finire gli studi. Sei uno sfigato, se finisci gli studi.

In che senso?

Nel senso che tu devi studiare tutta la vita. Quand'è che tu hai finito di studiare? A un certo punto sei dottore. Al mondo non gliene frega niente delle due lauree. Io ti auguro di non finire mai di studiare. Io non ho finito gli studi e non vorrò mai finirli perché mi sento talmente vuoto che spero di riempirmi in qualche modo.

Tu sei nato a Frosinone in provincia di Frosinone, nel Lazio la tua storia è legata a doppio filo a Napoli. Cosa ti lega, a questa città?

Napoli è un vulcano che è già eruttato nell'umanità che la abita, che è il magma vero di questa città. Tu devi imparare a farne parte. Non è un luogo che ti dà la possibilità di importi. È un luogo di cui devi diventare parte, dove devi fare esercizio di umiltà, Imparare a mettere da parte la tua centralità rispetto alle cose e a farti accompagnare dalle cose. Questo ti insegna soprattutto a riconoscere l’altro, ad accettarlo. È uno specchio meraviglioso. E questo è il motivo dell’amore che tanti hanno per questa città. E spiega anche la repulsione che può generare in tanti altri.

Tu ti senti parte di Napoli?

Io mi sento accolto con gioia e con amore. E mi sento anche di dover restituire molto, perché questa città è stato un terreno fertile dove le mie cose potevano diventare altro.

È anche impaziente come città, Napoli. Ho letto da qualche parte, forse proprio su Fanpage.it, che è la città col tempo di reazione più veloce della mano sul clacson allo scattare del semaforo verde. Alcuni dicono perché si beve troppo caffè. Tu bevi tanto caffè a Napoli?

Ne bevo tantissimo.

Allora non capisco come fai ad essere così paziente: quanto ci metti a fare una scultura? 

Dodici mesi per la progettazione, come minimo. Però è un lavoro che inizia molto prima.

Raccontamelo, dall’inizio alla fine…

Innanzitutto do fiducia all'idea. Dopodiché la metto su carta, per condividerla con chi poi potrebbe diventare co-proprietario dell’opera. Devo far capire qual è la prospettiva a qualcun altro, altrimenti io sarei ben felice di prendere un blocco e, con i miei tempi, dedicarmi semplicemente al gesto dello scolpire.

Parli di quel gesto come se fosse la cosa più bella del mondo…

Perché è davvero meraviglioso. Per me è come un rosario, rituale e ripetitivo. In qualche modo, quindi, sa essere anche profondamente meditativo.

Torniamo al processo creativo…

Dopo la carta, mi serve fare un modello in gesso a grandezza naturale, seguendo una tecnica che potremmo ricondurre a un grande maestro come Canova, per capire le dinamiche. Guarda Aiace e Cassandra: come può reggersi anche con quel peso, con una parte che sporge, tutto appoggiato su una caviglia. Per Aiace e Cassandra il modello l’ho realizzato proprio qui, sull’altare della chiesa. Poi, a un certo punto c'è un momento di grande libertà che io mi ritaglio nell'ultimo centimetro, dove nel marmo avvengono delle cose che nel gesso, nell'argilla, nell'invenzione non c'era.

Io lavoro col col computer, non con lo scalpello. E c'è un tasto che per me rappresenta la felicità. Il control+Z che premi quando cancelli per sbaglio tre pagine di lavoro: torni indietro e il tuo errore è cancellato, non esiste più. Tu quando scolpisci non hai un control+Z. Cosa fai quando commetti un errore? Ricominci da capo o ti tieni l’errore come parte del processo creativo?

Io non sbaglio.

Ecco, questa è una risposta che non mi aspettavo.

Scherzo, ovviamente. La verità è che devi diventare sempre più bravo a sbagliare. La bravura sta nel riuscire a trasformare un errore in una possibilità. Non credo che ci siano delle cose, a parte a morte, alle quali non si può rimediare. L'errore è necessario. E le mie opere sono piene di errori, sono il frutto di un errore dietro l'altro. Non c'è un colpo giusto. Le mie opere sono come una persona che sta in piedi e tenta di star dritta. Ci sembra dritto, ma i suoi muscoli si stanno assestando in continuazione. Tutto è approssimazione.

Tutto approssimazione, ma oggi viviamo buona parte della nostra vita nei social network,i il grande luogo della perfezione dell'immagine di sé. Si parla di narcisismo da social e tu hai scolpito un’opera intitolata al mito di Narciso. Che rapporto hai con i social network? Che idea ti sei fatto di questo nostro continuare a specchiarci nella nostra immagine riflessa?

Possiamo scegliere come utilizzare i social. A me piace comunicare, mi piace entrare nelle tasche delle persone per lasciare qualcosa. Io ho iniziato ad utilizzare i social nel 2006, 2007 quando nasceva Facebook. Ero un ragazzo che viveva in Grecia che doveva pulire i bagni di un ristorante per mangiare. C'era il proprietario del ristorante che giocava su Facebook, e chattava con una persona dall'altra parte del mondo. Io ho cominciato a metterci le foto delle mie opere e ho trovato la possibilità di una community che altrimenti mi sarebbe stata preclusa, non avendo un euro da investire in comunicazione. Questo è il mio rapporto con il social. Poi ci sono state le dirette, quindi ho potuto far entrare le persone all'interno del mondo per lasciarmi condizionare dalla loro presenza. È un canale che mi ha permesso di poter essere libero e non di lavorare, come dicevo all'inizio, al soldo di qualcuno che ti dice guarda dammi le opere in conto vendita, ti chiamo se qualcuno è interessato, i portfolio di contatti sono i miei. Sono io che mi occupo delle mie cose, nessun altro, perché io voglio diventare risorsa per altri.

Cambiamo argomento: c’è una cosa che mi stupisce della tua arte, che mi pare la caratterizzi molto. È questa idea di citare in qualche modo le opere del passato: David, la Venere e dargli però una chiave nuova, una chiave di lettura nuova, una chiave di lettura contemporanea. Abbiamo parlato di musica prima viene in mente quasi il rap che prende le basi di altre canzoni e che ha qualcosa di nuovo. Com’è il tuo rapporto tra contemporaneo e classico, tra originalità e citazione?

Per me tutta l'arte è contemporanea. Inventarsi una corrente artistica, chiamarla contemporanea, vuol dire togliere il primato della contemporaneità a tante cose che fatte quattrocento anni fa, che sono ancora in comunicazione con noi, perché hanno ancora qualcosa da dire. E per quanto riguarda l'originalità, io non penso di essere originale. Non ho nemmeno il primato delle parole che sto usando in questo momento. Per quanto riguarda invece le figure e le immagini che tu hai usato, la parola citazione, io per esempio Bernini quando scolpisce il David non aveva niente a che vedere con il suo tempo storico. Era soltanto l'esigenza di un cardinale che aveva voglia di abbellire casa. E non credo che si sia fatto il problema che prima di lui lo aveva fatto Michelangelo. Neppure Michelangelo si è posto il problema, perché prima di lui lo aveva fatto Donatello, e possiamo andare indietro all'Infinito.

Cos’è veramente originale, allora?

La cosa veramente originale è la cosa che non può essere capita. Se è veramente originale, è perché ha il primato, è origine di qualcosa. Io non ho la pretesa di essere originale.

A te interessa essere capito?

No, a me interessa comunicare. Mi interessa capirmi attraverso gli occhi degli altri.

Proviamoci, allora: Il tuo David è una donna, Venere è una donna anziana e calva. Cosa vuoi dire quando proponi queste figure? Otto von Bismark, non certo un’artista, diceva che la politica è arte. Secondo te l'arte è politica?

Un museo non può non esserlo. È un luogo del popolo che appartiene a una città, condiziona l'ambiente circostante, in un modo o nell'altro sta mandando un messaggio. Quel messaggio appartiene alle persone a cui arriva, che possono partecipare, possono accogliere, possono ignorare. Io misuro ogni giorno l’impatto che questo luogo ha sui ragazzi che se ne occupano, e l’impatto che, con il loro genio, riescono a lasciare alle persone che passano di qua, e trasformano quell'esperienza in qualcosa che va a finire ovunque.

Tra le cose che hanno, e avranno un impatto, c’è anche l’intelligenza artificiale. L’intelligenza artificiale fa tutto all'istante. Non sbaglia mai. Ma tu sei la creatività umana. Che cosa rimane della creatività umana? La lentezza, l'imperfezione, l'inatteso, l’incidentale. Che cosa? Che cosa ci salverà dall'intelligenza artificiale?

Innanzitutto dovremmo parlare anche di deficienza artificiale, perché purtroppo tutta questa intelligenza non c'è. In questo momento, mentre stiamo parlando, il nostro cervello si sta occupando di un'infinità di cose. Quella che chiamiamo intelligenza artificiale sta facendo una cosa, meravigliosamente bene, molto meglio di noi. Ma sta facendo solo quella. Detto questo io sono molto curioso rispetto all’intelligenza artificiale, e mi auguro che possa diventare indipendente, anche sterminarci. Mi spaventa semmai il fatto che noi ci affidiamo a tutto questo, ne diventiamo dipendenti e rinunciamo alla capacità di fare un'esperienza, come delegare il sesso a qualcun altro, convincendosi di aver avuto un orgasmo. Per me potrebbe pure essere un vantaggio nel mio caso, perché io in questo modo non ho competitor e quindi diventa sempre più unico e sempre più di valore quello che faccio, come posizionamento del brand sul mercato.

Sono un brand, hai detto, e l’arte è anche economia, oltre a essere politica. Oggi tante opere d'arte valgono tantissimo. Valgono sempre di più, sono valutate anche come asset finanziari. La tua è un'arte che si valuta nel tempo, e tu come artista metti al lavoro un sacco di persone, oltre a te stesso. Tu prima hai citato tutte le persone che lavorano con te come fosse un'azienda. Ecco, il capitalismo secondo te uccide l'arte oppure la esalta?

L'arte senza un modello di business è un'arte frustrata. Il nostro asset più importante è il tempo. Se io voglio dedicare la totalità del mio tempo a far ciò che amo, devo essere in grado di rendere quel che amo sostenibile. L'economia è l'unico modo.

908 CONDIVISIONI
Immagine
Francesco Cancellato è direttore responsabile del giornale online Fanpage.it e membro del board of directors dell'European Journalism Centre. Dal dicembre 2014 al settembre 2019 è stato direttore del quotidiano online Linkiesta.it. È autore di “Fattore G. Perché i tedeschi hanno ragione” (UBE, 2016), “Né sfruttati né bamboccioni. Risolvere la questione generazionale per salvare l’Italia” (Egea, 2018) e “Il Muro.15 storie dalla fine della guerra fredda” (Egea, 2019). Il suo ultimo libro è "Nel continente nero, la destra alla conquista dell'Europa" (Rizzoli, 2024).
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views