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“Ezio Bosso aveva ragione: andava bene fino a che c’era da esibire il mongolino”, l’intervista di Fanpage.it a chi gli è stato più vicino

Ezio Bosso dopo tre anni e mezzo dalla sua morte: il suo messaggio è davvero scomparso? Seriamente Ezio Bosso andava bene soltanto come personaggio folkloristico?
A cura di Saverio Tommasi
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Ezio Bosso
Ezio Bosso

Ezio Bosso è nato il 13 settembre del 1971 ed è morto il 14 maggio 2020, sono queste le due date spesso ricordate, con tanto silenzio nel mezzo.

Facciamo un passo indietro: avevo conosciuto Ezio Bosso in occasione di una sua direzione d'orchestra a Bologna. Lo avevo incontrato fuori, per strada. Poi – telecamera in mano – lo avevo seguito durante tutta la preparazione in camerino. Anzi no: Ezio Bosso non aveva un camerino perché "non mi piace stare sottoterra, fino a che posso sto sopra. E poi mi dispiace farmi portare a braccio per fare le scale, ogni volta". Era infatti già in carrozzina, quando lo incontrai la prima volta.

Facciamo un passo avanti: mi squilla il telefono, è Alessia Capelletti, oggi si occupa della comunicazione intorno a Ezio Bosso, esattamente come quando l'ho conosciuta io ed Ezio Bosso era vivo, e per prima cosa Alessia mi chiede come sto. Quando glielo chiedo io, inizia a raccontare.

"Non è rimasto niente del pensiero di Ezio Bosso", mi dice. E da qui iniziamo a parlare, e quando ci salutiamo io inizio a riflettere.

Ezio Bosso è stato un talento naturale, straordinario, disciplinatissimo e pieno di vita, straripante. Strabordava di talento e dava fastidio, perché metterlo in una casella era difficile, come minimo stava in tre o quattro caselle, però era capace anche di disegnarsele da solo, le caselle in cui stare. Ezio Bosso sceglieva la forma, oltre al contenuto. E poi – negli ultimi anni – quel corpo non conforme, un po' ingombrante, che per alcuni ha iniziato a sovrastare il musicista, a essere la sua parte rappresentativa di fronte al grande pubblico, invece che rappresentare quello che veramente era: il simbolo di una malattia che gli toglieva la possibilità di esprimersi pienamente, come aveva fatto fino a quel momento.

Il giorno dopo la nostra telefonata ho richiamato Alessia Capelletti e le ho chiesto di incontrarci, di raccontarmi le stesse cose dette al telefono anche dal vivo, in telecamera. E le ho chiesto di trovare un'occasione speciale, non volevo soltanto la sua versione, ma anche quella di chi è stato artisticamente più vicino a Ezio Bosso negli ultimi anni della sua produzione artistica. E così ci siamo dati appuntamento al Teatro Verdi di Trieste per il non-compleanno di Ezio Bosso, che tra l'altro quel teatro lo ha pure diretto. Bosso abitava di fronte al teatro, al terzo piano. Il penultimo del palazzo, che quando sono andato io quell'appartamento aveva le finestre aperte.
Il mio pensiero era semplice: sono tre anni e mezzo che Ezio Bosso è scomparso, ed è il momento per provare a capire cosa è rimasto – oggi – del suo patrimonio musicale; come viene impiegato e cosa pensano le persone che gli sono state più vicine. Veramente oggi il pensiero di Ezio Bosso è morto?

Conosco Tommaso Bosso, nipote e amministratore dell'eredità di Ezio Bosso, che mi accoglie così: "Lui ha avuto una fama mediatica improvvisa nel 2016, che ha comportato dei pro ma anche tanti contro".

Quali sono stati i contro?

Si è creato quel personaggio del disabile in carrozzina che dice la frasi belle.

Poi vedo Alessia Capelletti e le chiedo che cosa, oggi, la faccia arrabbiare.

Mi arrabbio quando parlo con i media mainstream e mi dicono che "Ezio Bosso era Ezio Bosso perché era lui". E sai cosa vuol dire questo?

Penso voglia dire che in lui vedevano soprattutto la sua malattia, erano incapaci di vedere e ascoltare il musicista, la persona.

Esatto. Come diceva Ezio, che era di una lucidità su se stesso mostruosa, "c'era da esibire il mongolino". Se non c'è più da eseguire il mongolino, amen, non è più interessante. Tutto il messaggio di Ezio Bosso rischia così di morire, e invece si merita di vivere perché è stato un messaggio unico e rivoluzionario, soprattutto in un Paese come l'Italia; e invece proprio in quella pelosa santificazione del martire c'è la vera morte di Ezio. Che non è la morte fisica, quella doveva arrivare, lo sapevamo, ci ha sconvolto come se fosse stato messo sotto da un treno, ma quella era comunque attesa: sai che Ezio è morto con tre cancri?

Grazie ad Alessia, rifletto: ha ragione. Ezio Bosso, fuori dall'affetto costante del pubblico, ha sempre avuto problemi di riconoscibilità della qualità del suo lavoro da parte dei vertici della musica classica. Io, per la mia ignoranza, non lo sapevo; l'ho capito un passetto per volta. Ho fatto parte del grande pubblico non musicalmente scolarizzato, che ha ascoltato la musica classica perché c'è stato qualcuno (Ezio Bosso) che me l'ha spiegata. Io Ezio l'avevo conosciuto ai vertici, e in maniera un po' sciocca avevo sempre pensato che fosse stato così da sempre, come l'acqua che bagna, una cosa naturale.
Dorian Dionisi, amico vero di Ezio Bosso, lo spiega così:

Andava fuori dai canoni classici del direttore incravattato in papillon, il maestro Ezio Bosso si presentava con gli stivaletti e con la giacchetta. E lo faceva per trasmettere al pubblico che siamo tutti uguali, l'abito è indifferente, la musica deve arrivare a tutti indifferentemente se una persona ha studiato musica oppure no. Era la concezione del fatto che la musica ha un potere enorme quando ti fa star bene, e la musica di Ezio faceva davvero stare bene le persone.

Parlo con Domenico Lazzaroni, primo trombone EPO e Teatro Verdi di Trieste.
In cosa Ezio Bosso era destabilizzante?

A 7-8-9 anni iniziamo a studiare uno strumento, e ci spiegano che le scale si fanno in un certo modo e ad esempio gli staccati in un altro. E lui a volte sovvertiva questo tipo di ragionamento e diceva: proviamo a fare in un'altra maniera, vediamo come viene. A volte faceva sentire al pubblico la differenza tra fare uno staccato in una maniera o in un'altra, e poi faceva scegliere al pubblico. Questo era destabilizzante qualche volta anche per i musicisti, oltre che per talune istituzioni musicali.

Giuseppina Manin, giornalista del Corriere della Sera e scrittrice, mi conferma queste visioni:

Ci sono ancora oggi persone che pensano che la musica classica, per essere importante e seria, deve essere per pochi. Se tu esci dalla tua torre d'avorio, sei guardato con sospetto. In più aveva anche dei problemi di salute, quindi diventava la popstar che faceva un po' di folklore, e questo non veniva perdonato da istituzioni teatrali e critici parrucconi e noiosi, che continuavano a dire: è un fenomeno pop.

Alessia Capelletti, come è potuto avvenire tutto questo? E perché ancora tutta questa fatica nel riconoscerne l'insegnamento?

Perché lui era la meteora in un sistema che appena ha potuto si è richiuso sulle logiche del sistema, e ha espulso la meteora come eccezione. E come dice l'adagio: l'eccezione non è la regola, oppure la conferma. Perché non diamo voce ai giovani? Perché il più giovane sovrintendente italiano è dovuto andare a Dubai, a 38 anni, perché in Italia ci litighiamo i settantenni? Dove è l'insegnamento di Ezio Bosso che faceva suonare insieme giovani ed esperti?

Tommaso Bosso:

Io quello che mi auguro è riuscire a fare in modo che Ezio possa diventare una consuetudine nel panorama musicale e culturale italiano e internazionale. I sovrintendenti, che magari – finalmente – riusciranno a prenderlo non come un fenomeno mediatico (qualche volta anche da baraccone è stato interpretato), ma per quello che era: un musicista.

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Sono giornalista e video reporter. Realizzo reportage e documentari in forma breve, in Italia e all'estero. Scrivo libri, quando capita. Il più recente è "Siate ribelli. Praticate gentilezza". Ho sposato Fanpage.it, ed è un matrimonio felice. Racconto storie di umanità varia, mi piace incrociare le fragilità umane, senza pietismo e ribaltando il tavolo degli stereotipi. Per farlo uso le parole e le immagini. Mi nutro di video e respiro. Tutti i miei video li trovate sul canale Youmedia personale.
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