Migranti, la storia di Daouda: “Io, fucilato in Libia, ho perso una gamba: ma almeno sono vivo"
pubblicato il 22 settembre 2018 alle ore 16:36
«Sono senza una gamba, ma è sempre meglio che essere morto. Sai quante persone muoiono in mare? Io almeno sono vivo».
È un racconto lucido quello di Daouda Sow, 26 anni senegalese, che dal febbraio 2017, vive a Reggio Calabria nella comunità Exodus cas Boschicello.
«Mi hanno sparato in Libia, una fucilata. Sono entrati in casa alle tre di notte per derubarmi, non hanno trovato nulla e mi hanno colpito, c'è una brutta situazione li, c'è la guerra».
In Africa Daouda giocava come centravanti, un tiro infallibile col destro. «Un giocatore di calcio deve avere due gambe, io adesso ne ho solo una e ho detto addio alla carriera calcistica», racconta amaramente.
Oggi sono diventate le braccia il suo punto forte. Dal calcio al basket in carrozzina dopo quella che lui chiama ‘una brutta disavventura’.
«Sono partito dal Senegal, ho attraversato diversi paesi Mali, Burkina Faso, Nigeria, Libia e poi sono arrivato in Italia». Ma nella lunga traversata verso il sogno europeo, Daouda ha un incidente di percorso.
«Volevano derubarmi, i militari vogliono soltanto i nostri soldi. Ho cercato di difendermi e sono stato colpito a una gamba con un fucile», spiega.
Un colpo secco che però non viene mai curato. Il ragazzo perde molto sangue, ma non va mai in ospedale per farsi curare. «Non ci sono medici, infermieri privati e comunque i neri non vanno in ospedale, in Libia sono razzisti».
Daouda rimane li per due mesi, finché di mano in mano, da uno scafista all’altro, riesce a imbarcarsi. In cento su un gommone, un solo giorno di viaggio, ma appena sbarca a Reggio Calabria per la sua gamba non c’è più niente da fare: è ormai in cancrena.
Nell’ospedale cittadino gliela amputano immediatamente, finisce un sogno e inizia una nuova vita con le stampelle.
«In Senegal ho lasciato la mia famiglia, mamma Maremè, tre sorelle e due fratelli. Mio padre invece è morto, ma qui in Italia ho trovato tante persone che mi hanno aiutato. I primi tempi sono stati duri, ero molto depresso», continua.
Ci sono gli operatori della comunità, ci sono i nuovi amici, c’è la Reggio Basket in carrozzina,unica realtà in Calabria del genere e c’è coach Antonio Cugliandro che tra tante difficoltà economiche dovute anche ai costi altissimi degli impianti sportivi reggini, porta avanti la squadra che quest’anno, disputa il campionato di serie B.
E proprio il coach aveva lanciato appena un mese fa, una raccolta fondi su Facebook per comprare una carrozzina a Daouda. C’è stata una vera e propria gara di solidarietà e si è raggiunto l’obiettivo dei 2200 euro.
«È in squadra dallo scorso anno, ma parecchie volte non ha potuto giocare per via di due ricadute. Perché una carrozzina ? Di certo non è un capriccio. La carrozzina da gioco è come un paio di scarpe: è modulata sul fisico e in base alla disabilità. Finora Daouda ha giocato con una che era di un ragazzo che non è più in squadra e non ne aveva mai avuta una tutta sua che gli permettesse di giocare e muoversi bene».
Adesso scende in campo con la tenacia di quando giocava a calcio: «Sono molto contento adesso e voglio ringraziare tutti coloro che mi hanno regalato una nuova possibilità».
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